«Oxford è, senza dubbio, una delle città al mondo in cui si lavora di meno, e vi è molto più decisivo l’esserci anziché il fare o anche l’agire. Essere lì richiede una tale concentrazione e una tale pazienza, e richiede un tale sforzo il lottare contro il naturale illetargirsi dello spirito, che sarebbe un’esigenza spropositata pretendere che in più i suoi abitanti si mostrino attivi, sopratutto in pubblico…». Così scrive lo spagnolo Javier Marías in Tutte le anime, il racconto dei suoi turbamenti oxoniani. Chiedo al professor Nicola Gardini — davanti alla giungla addomesticata di Magdalen College (piante chinate sull’acqua verde, barchette colorate, studenti a piedi nudi nel primo sole) — se sia vero; o se la prospettiva di andarsene dall’Europa abbia scosso gli animi e movimentato il luogo. Mi guarda storto.
«Una volta, forse: oggi si lavora. Si studia, s’insegna, s’accumulano obblighi amministrativi. E ci si preoccupa: Brexit sarebbe un guaio per questa città e per tutta la Gran Bretagna. L’università di Oxford, in aprile, s’è espressa ufficialmente contro Brexit. Nel 2014-1015 sono arrivati 66 milioni di sterline di fondi di ricerca europei: se usciamo, bye-bye». Solo soldi, dunque? «No. Perderemmo mobilità e varietà. Ma quanti lo capiscono, in Inghilterra? Quanti ricordano che io qui pago le tasse, che la mia formazione è stata pagata dall’Italia, che loro ne godono i frutti? Vale per moltissimi: la sanità britannica, per esempio, si regge sugli stranieri. Mi dicono: “Va be”, se usciamo dalla Ue, Nicola, dovrai fare a bit of extra paperwork (compilare qualche modulo in più)! Non sono sicuro che sarà così semplice».